Forme dell'abitare. Pratiche di tracciabilità fra mondo e reale
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Cosa vuol dire abitare? Come abitare? E soprattutto, quale il nesso tra questa nozione solo apparentemente elementare, i media e la città? La riflessione proposta si pone l’obiettivo di dare risposta a queste domande, per mettere in luce la posizione del soggetto nel momento in cui è chiamato a vivere nello spazio, a vivere lo spazio. In tal senso, proprio l’abitare sembra rappresentare una pratica significativa, poiché non solo chiama in causa la gestione dello spazio in senso architettonico, ma anzi si fa portatrice di un importante valenza filosofica e antropologica. In quest’ottica, analizzare il significato e le modalità dell’abitare consente di rendere conto dell’articolazione che l’uomo riverbera sullo spazio e delle dinamiche attraverso le quali questa strutturazione prende forma. Abitare significa infatti circoscrivere un territorio, stabilendo i confini di un mondo che il soggetto possa chiamare proprio, tracciare lo spazio in cui ci si trova per renderlo abitabile, curvandolo secondo le proprie esigenze e riducendo l’altro da sé all’appropriabile. Emerge così la distinzione tra spazio e luogo: il primo infinito e privo di connotazione, il secondo espressione di una singolarità, sua impronta e manifestazione. Ma se è vero che il luogo si configura come campo di un dominio e di un possesso, è altrettanto vero che esso è sempre e da sempre attraversato dal sopravvenire dell’Altro, cioè da tutto ciò che il soggetto non controlla e non può controllare. Lo spazio del soggetto, ovvero il mondo, è allora oltrepassato dal reale: è nell’incontro tra il territorio del “mio”, di ciò che è sotto controllo, e il sopravvenire di ciò che sfugge a ogni possibile dominio che si sedimenta il luogo. La riflessione sul luogo, inteso come scrittura che traccia la presenza di un esistente, permette di inquadrare l’abitare come territorio di intersezione tra la quiete di un possesso e l’inquietudine dell’esposizione al reale. È quanto risulta dalla riflessione finalizzata ad una fondazione dell’abitare. Una tale definizione di abitare offre l’opportunità di verificare come, su un piano più eminentemente pratico, sia possibile riconoscere una vera e propria pratica dell’abitare. È quanto si propone di mostrare l’analisi della mediafaçade allestita in piazza Duomo a Milano. Il grande schermo si presenta infatti come una sorta d’interfaccia, che funziona come elemento di disposizione dello spazio intorno al soggetto, originando un nuovo luogo attraversato da linee di forza. Questi vettori territorializzanti evidenziano la capacità del dispositivo rilocato di riarticolare lo spazio attraverso particolari dinamiche (riflessività, indessicalità, performatività, inclusività). Lo schermo diventa così un mezzo di riconfigurazione dello spazio della piazza che, curvato dall’esperienza del soggetto, assume le caratteristiche di un luogo, poiché in-formato sulla misura del proprio mondo. Il saggio si ferma sulla soglia di una topologia di traiettorie, corrispondenti ad altrettante tracce dell’abitare, suggerendo la necessità di proseguire lungo le due direttrici della fondazione e della pratica dell’abitare per esercitare un pensiero dello spazio non puramente geometrale, ma costitutivamente antropologico.
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