Numero quattro del 2011 di "Comunicazioni sociali on-line", pubblicato nel 2011 dalla rivista "Comunicazioni Sociali" e curato dal Dottorato di ricerca in Culture della Comunicazione, Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo.
CARCERI
di Matteo Tarantino
pagine: 2
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Quasi per definizione, accostare carceri e media origina cortocircuiti. Laddove il carcere separa, il medium connette; laddove il carcere rinchiude, il medium apre; laddove il carcere amputa, il medium estende; laddove il carcere occulta, il medium mostra. E così via, in una lunga serie di paradossi simbolici, sociologici e linguistici che ci dicono molto – perlomeno in potenza – tanto sulle forme di disciplina, quanto su natura, funzione e scopo dei media. A ben vedere, la tensione fra media e carcerazione attraversa tutta la storia di quella che definiamo “modernità” – un periodo segnato da un pas de deux fra tecnologia e società. Semplificando, sono ravvisabili due poli. Da un lato, i media sono stati largamente considerati come elementi funzionali (quando non costitutivi) rispetto a un dispositivo carcerario focaultianamente inteso come puntiforme e diffuso. L’assunto di fondo è che l’intera società moderna, rotti gli originari “equilibri societari”, necessiti di forme di coercizione disciplinare diffuse per irreggimentare i cittadini dentro forme di produzione avanzate (si veda tutto il tema dei surveillance studies, per cui questa tensione si incarna in dispositivi tecnologici). Di questo “carcere invisibile” i circuiti mediali costituirebbero il sistema nervoso, oltreché fornirvi alcuni organi direttivi: occhi, orecchie, bocca.
di Patrizia Musso, Elisabetta Sala
pagine: 11
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Il carcere, di per sé, non sembra presentare alcuna caratteristica atta a un suo efficace utilizzo come location per uno spot pubblicitario contemporaneo: oltre alla sua dimensione denotativa, l'ampia e variegata dispersione connotativa lo rendono in linea di principio un ambiente con una scarsa valenza attrattiva per le imprese, intenzionate da sempre a promuovere nel migliore dei modi (quindi in ambienti da sogno e con personaggi positivi e da imitare) i loro prodotti e servizi. A meno di non ricorrere a strategie discorsive che siano in grado di aprire un gioco comunicativo in cui si lascia al destinatario il compito di percepire l'eventuale incoerenza di base e di chiudere così, correttamente, il percorso di senso dell'emittente. Si tratta di una strategia che per “cultura comunicativa” non appartiene, tendenzialmente, al linguaggio pubblicitario italiano, «non fa parte del nostro dna […], nonostante in altri campi il made in Italy si riconosca per la straordinaria capacità di generare il sorriso»: dalla musica alla moda fino al design1. Tenendo in considerazione tali premesse, due recenti casi pubblicitari incentrati a vario titolo sulla rappresentazione del carcere, veicolati a livello nazionale (la campagna IKEA 2010 “Basta poco per cambiare”) e internazionale (lo spot Audi A8, proiettato durante l'ultimo Super Bowl americano, “Escape the confines of the old luxury”) ci hanno spinto a compiere una prima indagine desk. L'intento è stato quello di rintracciare, inprimo luogo, un primo campione di casi promossi da brand di spicco che – a loro modo – hanno cercato di sfidare a livello locale gli stilemi comunicativi della cultura comunicativa nostrana; in secondo luogo, di rinvenire nel caso pubblicitario internazionale possibili elementi chiave legati all‟utilizzo del carcere quale luogo pubblicitario.
di Adriano D'Aloia, Cecilia Penati
pagine: 13
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Ogni storia ha bisogno di un luogo in cui rifugiarsi da se stessa. Spesso è un luogo di passaggio, nel duplice senso della parola: luogo in cui non ci si ferma a lungo, e soglia che una volta attraversata determina un cambiamento. In questo luogo particolare l’andamento del racconto sembra segnare il passo, scostarsi un momento in un antro, nascondersi quasi, persino temporaneamente imprigionarsi. In quel luogo di (apparente) distacco la narrazione subisce una condensazione, si concentra su ciò che là fuori non poteva risolversi, si apre a nuove dimensioni (la memoria, l’interiorità) e modifica significativamente le relazioni fra i soggetti che abitano il mondo della storia. Una delle forme concrete che questo topos narrativo può assumere è il carcere, da intendersi non tanto e non solo come spazio fisico entro cui è ambientata la vicenda di un testo narrativo (o una sua porzione), ma come luogo che consente la realizzazione strategica di una o più funzioni narrative. In questa prospettiva, nelle prossime pagine proporremo un’analisi del ruolo (cruciale) del carcere in Romanzo criminale – La serie, un caso eccentrico nel panorama della fiction televisiva italiana, per almeno due ragioni. In primo luogo perché la serie, che racconta le vicende dell’organizzazione malavitosa romana conosciuta come “Banda della Magliana” seguendone le vicissitudini per un trentennio di storia italiana, si innesta in una fortunata e composita “genealogia testuale”. Fatti reali (e la loro trasfigurazione cronachistica) della storia nazionale prendono una prima forma narrativa in un prodotto letterario (il romanzo del giudice Giancarlo De Cataldo, pubblicato nel 2002) e assumono nuovo vigore con l’adattamento del libro per il grande schermo realizzato nel 2005 da Michele Placido. Ma se nel film il carcere non ricopre un ruolo rilevante (i personaggi entrano o escono da Regina Coeli, ma poco della loro permanenza al suo interno è dato a vedere), nella serie esso è un motivo (sebbene non un tema) ricorrente con precise funzioni strategiche.
di Andrea Chimento
pagine: 11
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Michel Foucault ha dedicato al tema della prigione uno dei suoi testi più importanti: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, pubblicato per la prima volta nel 1975. Se in questo libro Foucault analizza minuziosamente il passaggio dai pubblici supplizi alla costruzione dei primi edifici carcerari, meno diretto è il collegamento fra il “luogo prigione” e gli studi del filosofo francese sulle eterotopie. Con il concetto di eterotopia Foucault identifica una tipologia di spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti, che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano […] spazi che, in qualche modo, sono in contatto con tutti gli altri e che, tuttavia, contraddicono tutti gli altri luoghi. L’eterotopia si delinea, quindi, in opposizione all’utopia: se l’utopia è una speranza senza un luogo reale cui riferirsi, l’eterotopia costituisce un’eccedenza di realizzazione. I luoghi eterotopici non necessitano di riferimenti geografici: sono spazi virtuali perché non tangibili materialmente ma allo stesso tempo reali perché luoghi dove si condensano concrete forme di esperienza.Un esempio classico di eterotopia è lo specchio, in cui ci vediamo all’interno di un luogo irreale (dove nonci troviamo veramente) che si apre oltre la sua superficie, ma che allo stesso tempo è uno spazio reale, tangibilmente connesso a ciò che lo circonda. Fra gli altri esempi di eterotopie vi sono le cosiddette istituzionitotali, di cui fanno parte manicomi, ricoveri, collegi e anche le prigioni.
di Mauro Salvador
pagine: 12
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Il rapporto che intercorre fra il medium videoludico e il luogo carcere è molto stretto e profondo. Inoltre, considerare un’ambientazione come oggetto di analisi è una scelta più che condivisa nei game studies di stampo strettamente ludologico. Allo stesso tempo, però, le implicazioni narrative che un luogo come il carcere porta con sé non possono essere ignorate. Sarà opportuno dunque tenere conto di entrambi gli approcci, senza per forza dover tornare sulla diatriba ormai da tempo esaurita fra ludologia e narratologia. Durante l’analisi, a proposito di narrazioni videoludiche, si terrà infatti conto, per esempio, della descrizione dell’eroe e del suo viaggio prodotta da Joseph Campbell a metà del secolo scorso. Sebbene l’antropologo statunitense si riferisse a prodotti letterari, affermava anche che, insita nella natura degli archetipi mitici, c’è la tendenza a migrare fra i media. I simboli della mitologia non si fabbricano, non si possono inventare, o abolire per sempre: sono produzioni spontanee della psiche e ciascuno ne conserva intatto il potere germinativo. Non è strano dunque che nelle narrazioni videoludiche si ritrovino le stesse simbologie e passaggi chiave, ciò che Campbell definisce “monomito”, delle mitologie classiche. Inoltre, come sottolineato da Marie- Laure Ryan, molti videogame impiegano il modello archetipico di Campbell e Propp con qualche differenza: the hero can lose and the adventure never ends. In most action games this archetype is further narrowed down to pattern that underlies all wars, sport competition, and religious myth, namely the fight between good (me) and evil (the other) for dominance of the world.
di Mauro Buzzi
pagine: 11
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I titoli di testa sono brevi, in sovraimpressione sull'immagine di un muro. A introdurci nel film compare una didascalia che informa sul luogo d'ambientazione dell‟intera opera: “Prison des Baumettes Marseille”. La prima sequenza è girata in un unico piano di circa quattro minuti. Inizia con una soggettiva di un detenuto (che scopriremo in seguito essere Mourad) che osserva il ballatoio interno del suo raggio, dall‟occhiello della sua cella. Lentamente si scosta dalla porta e ruota di novanta gradi permettendoci di vedere il luogo nel quale si trova. Con cautela si avvicina agli oggetti, informandoci del nome di ciascuno, e per taluni dando una breve frase di descrizione. Elenca in ordine i propri vestiti, la sacca, il suo letto e al di sotto l'altro letto della cella, il lavabo, un piano d'appoggio o di lavoro in piastrelle, il frigorifero, una mensola pensata per sostenere la televisione ma che, essendo posta troppo in alto, ne rende scomoda la visione, e perciò rimane vuota, mentre la tv è sistemata più in basso. Poi lo specchio, nel quale vediamo l'immagine di Mourad che sostiene la macchina da presa, la tenda oltre la quale è situata la toilette, la porta, il suo occhiello e a lato un interruttore, il tavolo, la sedia, uno sgabello e infine i tubi, che scorrono ad altezza terra per un lato della stanza e che, come ci spiega Mourad, sono molto utili, percuotendoli, per chiamare alla finestra i detenuti delle celle vicine, quando occorre passare velocemente delle informazioni. La soggettiva termina quando Mourad appoggia la macchina da presa su di un piano e la rivolge verso di sé, per un saluto, in un certo senso, di introduzione al film e con il quale si chiude la prima sequenza.
di Giulia Innocenti Malini
pagine: 12
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Da molti anni seguiamo con interesse il diffondersi di esperienze teatrali nei contesti sociali, e notiamo come esse a volte propongano le medesime logiche della produzione teatrale professionale, altre volte invece inaugurino forme di ricerca artistica e sociale in cui la teatralità scopre e riscopre le sue differenti valenze. Questo secondo caso è comunemente detto teatro sociale e rappresenta un'espressione rilevante della teatralità contemporanea, assumendo la questione sulla necessità dell'atto teastrico e muovendo alla riscoperta del suo valore per l'essere umano. Esso agisce fuoriscena e fuori dai teatri, dove sperimenta, in dialettica con il contesto sociale, nuovi procedimenti di ricerca teatrale, aprendo le forme della drammaturgia nelle sue differenti funzioni – attorale, autorale e spettatoriale – alla partecipazione attiva del gruppo e della comunità. Il teatro sociale sfugge alle logiche del circuito e della vendita dello spettacolo, facendosi condurre dall'unica certezza che per l'essere umano, per la sussistenza della sua umanità, il teatro e, più in generale, le pratiche della performance artistica, siano assolutamente necessari. In quest'area si muovono alcune esperienze del teatro in contesti di reclusione, che rinasce nei luoghi costrettie ritrova nel fare artistico alcune funzioni sociali orientate allo sviluppo delle persone, dei gruppi, ma anche delle istituzioni e delle comunità locali che partecipano. Claudio Meldolesiafferma che il potere trasformativo del teatro stia nelle risorse proprie che l'immaginazione ha di contrastare l'emarginazione; è un'immaginazione corale, che nasce dalla partecipazione di un gruppo all'atto creativo teatrale, un coro che diviene autore e attore della produzione culturale, affermando così la propria soggettiva umanità.
di Francesca Burichetti
pagine: 16
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Online, cartacei, informativi, narrativi, provocatori, di denuncia: sono solo alcune caratteristiche dei giornali dal e sul carcere italiano. Non viaggiano nei canali tradizionali, come le edicole, e vengono distribuiti con tirature piuttosto basse, con una media di 12.000 copie per numero. Raggiungono soprattutto gli “addetti ai lavori”, che a vari livelli si occupano delle istituzioni carcerarie, ma hanno generalmente difficoltà a entrare in contatto con il lettore comune, sebbene sia esso il vero target da raggiungere. I giornali carcerari non sono vincolati a un editore noto che li spinge a impostare stile di scrittura e selezione dei contenuti secondo le logiche del marketing e delle vendite: sono fonti indipendenti. Nascono per svolgere funzioni di controinformazione, con l'obiettivo di smentire i media mainstream, che troppo spesso tendono a penalizzare la veridicità delle notizie, a tutto vantaggio della loro spettacolarizzazione. Svolgono inoltre funzioni di informazione alternativa, facendosi promotori di nuove forme culturali. L'innovazione culturale risiede soprattutto nella modalità di utilizzo dello strumento, che ha certamente fini di protesta politica, ma anche di educazione, di formazione e di sostegno ai detenuti. Strumenti di educazione e di distrazione, questi giornali ospitano spesso forme di scrittura creativa, come poesie e racconti, ibridando linguaggi specificamente letterari con il linguaggio della cronaca e dell'editoriale. Per tutte queste ragioni i giornali carcerari possono essere considerati veri e propri esempi di media non mainstream: mezzi di comunicazione dal basso che penetrano circuiti profondamente diversi da quelli tradizionali. Per la loro eterogeneità e varietà, i media non mainstream sono un oggetto di difficile definizione, attorno a cui è tuttora aperto un ampio dibattito.
di Camilla Maccaferri
pagine: 8
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In carcere i media possono entrare, ma, esattamente come accade ai detenuti, non possono nella maggior parte dei casi uscirne e, per quanto ogni spettacolo teatrale sia destinato a morire nel momento della propria messa in scena, l’invisibilità, cui il regolamento carcerario condanna molte delle esperienze di teatro in luoghi di detenzione, apre un grande interrogativo sul suo significato ultimale e sulla sua natura che rischia di diventare intrinsecamente autoreferenziale e autoconclusiva. Attraverso l’analisi dell’esperienza laboratoriale di Compagnia della Corte e Les Enfants Sans Souci, autori di una riedizione della Tempesta shakespeariana messa in scena presso la Casa Circondariale di Voghera con un cast composto interamente da detenuti, si proverà a indagare sulla liceità dell’utilizzo della definizione “teatro” con la fuoriuscita dei lacerti, dopo un avvenuto passaggio crossmediale, di questa esperienza dalle mura carcerarie. L’esperienza del teatro sociale in carcere, in Italia, nasce e si sviluppa verso il finire degli anni Ottanta: al 1988 risale l’inizio dell’attività teatrale nel carcere di Volterra, da cui prenderà avvio la realtà della Fortezza, coordinata dal regista Armando Punzo, che nel 1994 darà vita al primo Centro Teatro e Carcere italiano. Parallelamente, presso altre strutture detentive prendono avvio progetti analoghi: dal 1989 sono attivi laboratori teatrali a San Vittore, gestiti da Donatella Massimilla, dagli anni Ottanta il carcere minorile milanese Beccaria propone corsi di clownerie e teatro per i giovani detenuti e nel 1992 viene fondata da Michelina Capato Sartore la cooperativa sociale E.S.T.I.A., operante nel carcere di Bollate.
di Francesca Barbieri
pagine: 8
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Dopo le prime esperienze realizzate negli anni Ottanta, il teatro in carcere ha conosciuto in Italia una progressiva affermazione e ha ricevuto ulteriore impulso negli ultimi dieci anni grazie alle nuove esperienze avviate nel campo dal mondo del teatro sociale, animato, come è noto, da una peculiare attenzione alla realtà del disagio nelle sue diverse manifestazioni. Tali sperimentazioni hanno dato luogo a un panorama complesso in cui convivono approcci differenti. Tuttavia, nonostante le difficoltà, la pratica del teatro in carcere è generalmente affermata negli istituti penitenziari e approvata dalle autorità carcerarie in virtù della sua funzione pedagogica. Il panorama degli studi sul teatro in carcere cerca di fotografare una realtà in continuo movimento, difficile da cogliere nella sua ampiezza a causa dei molti spunti di riflessione che apre su vari fronti. Alcune ricerche aspirano a fornire una mappatura delle esperienze realizzate in Italia e in Europa. Altri studi si sono focalizzati sulla definizione del teatro in carcere come fenomeno appartenente all‟universo dei cosiddetti teatri della diversità, tentando di definirne le caratteristiche. Negli ultimi mesi è infine in corso la fondazione di un Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, nato dopo il convegno Immaginazione contro emarginazione, svoltosi a gennaio 2011 con l'intervento dei principali operatori e studiosi del campo nella realtà italiana. Si avverte pertanto recentemente la necessità di delineare un quadro generale del teatro in carcere per ripensare criticamente il cammino compiuto e impostare nuovi sviluppi dell'esperienza.
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L'articolo contiene le seguenti recensioni: Douglas Kellner CINEMA WARS Hollywood Film and Politics in the Bush-Cheney Era Wiley-Blackwell, Malden-Oxford-Chirchester 2010 pp. 279; Michael J. Shapiro CINEMATIC GEOPOLITICS Routledge, Abingdon-New York 2009 pp. 177; Giuseppe Riva I SOCIAL NETWORK Il Mulino, Bologna 2010 pp. 190; SCREENWRITING History, Theory and Practice Wallflower Press, London-New York 2009 pp. 228; Manuel Castells COMUNICAZIONE E POTERE Università Bocconi, Milano 2009 pp. 665; Raymond Bellour LE CORPS DU CINEMAHypnoses, émotions, animalités P.O.L, Paris 2009 pp. 637; Roger Silverstone MEDIAPOLIS La responsabilità dei media nella civiltà globale Vita&Pensiero, Milano 2009 pp. 314; Peppino Ortoleva IL SECOLO DEI MEDIA Riti, abitudini, mitologie Il Saggiatore, Milano 2009 pp. 334; Michel Chion LECOMPLEXE DE CYRANO La Langue parlée dans les films français Cahiers du cinéma, Paris 2008 pp. 190; Kim Akass – Janet McCabe (a cura di) QUALITY TV Contemporary American Television and Beyond I.B. Tauris, Londra - New York 2007 pp. 132; D. N. Rodowick IL CINEMA NELL’ERADEL VIRTUALE Olivares, Milano 2008 pp. 212; Giuliana Bruno PUBLIC INTIMACYArchitecture and Visual Arts MIT Press, Cambridge 2007 pp. 239; Gary Edgerton – Jeffrey P. Jones (a cura di) THE ESSENTIAL HBO READER University Press of Kentucky, Lexington 2008 pp. 357; Mark Deuze MEDIAWORK Polity Press, Cambridge 2007 pp. 288
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