La tempesta imprigionata. La sopravvivenza (im)possibile del teatro in carcere
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In carcere i media possono entrare, ma, esattamente come accade ai detenuti, non possono nella maggior parte dei casi uscirne e, per quanto ogni spettacolo teatrale sia destinato a morire nel momento della propria messa in scena, l’invisibilità, cui il regolamento carcerario condanna molte delle esperienze di teatro in luoghi di detenzione, apre un grande interrogativo sul suo significato ultimale e sulla sua natura che rischia di diventare intrinsecamente autoreferenziale e autoconclusiva. Attraverso l’analisi dell’esperienza laboratoriale di Compagnia della Corte e Les Enfants Sans Souci, autori di una riedizione della Tempesta shakespeariana messa in scena presso la Casa Circondariale di Voghera con un cast composto interamente da detenuti, si proverà a indagare sulla liceità dell’utilizzo della definizione “teatro” con la fuoriuscita dei lacerti, dopo un avvenuto passaggio crossmediale, di questa esperienza dalle mura carcerarie. L’esperienza del teatro sociale in carcere, in Italia, nasce e si sviluppa verso il finire degli anni Ottanta: al 1988 risale l’inizio dell’attività teatrale nel carcere di Volterra, da cui prenderà avvio la realtà della Fortezza, coordinata dal regista Armando Punzo, che nel 1994 darà vita al primo Centro Teatro e Carcere italiano. Parallelamente, presso altre strutture detentive prendono avvio progetti analoghi: dal 1989 sono attivi laboratori teatrali a San Vittore, gestiti da Donatella Massimilla, dagli anni Ottanta il carcere minorile milanese Beccaria propone corsi di clownerie e teatro per i giovani detenuti e nel 1992 viene fondata da Michelina Capato Sartore la cooperativa sociale E.S.T.I.A., operante nel carcere di Bollate. |
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